Buone notizie per gli allevatori sardi.

Via libera alla movimentazione fuori dal territorio regionale dei capi ovini e bovini.

Questa la decisione del Ministero della Salute che con una nota ha indicato alla Regione le modalità per la ripresa della movimentazione degli animali. Si allentano così le restrizioni in vigore non solo per la malattia del cervo (Ehdv), ma anche per le zone infette dal sierotipo tre della blue tongue (Btv3).

Relativamente alla malattia del cervo, secondo quanto comunicato dal ministero, la movimentazione fuori regione è nuovamente consentita da tutta l’Isola agli animali da allevamento che siano stati sottoposti al test Pcr specifico con esito negativo. La stessa procedura è prevista per la movimentazione dei capi dalle aree dell’Isola infette dal siero tipo tre della lingua blu, mentre, nel resto della Sardegna, in relazione agli altri sierotipi, le movimentazioni potranno riprendere regolarmente senza test Pcr per l’individuazione del virus della blue tongue. In tutti i casi in cui è prevista l’esecuzione del test specifico, gli animali da movimentare dovranno essere sottoposti a Pcr al termine di un periodo di trattamento insetto-repellente di almeno sette giorni e che dovrà essere comunque effettuato fino al giorno della partenza.

Gli animali potranno essere movimentati liberamente (ovvero senza test preventivo) solo per la macellazione, “a condizione – si legge nella nota del Ministero – che la macellazione venga effettuata nel minor tempo possibile”.

“Ancora una notizia positiva per il nostro comparto zootecnico, in un periodo dell’anno particolarmente importante per la produzione e il mercato”, dichiara l’assessore regionale della Sanità, Carlo Doria. “Non solo siamo riusciti a sbloccare uno stop totale che durava da oltre un mese, a causa della comparsa della malattia del cervo sul nostro territorio, ma abbiamo finalmente ottenuto un ulteriore risultato sul fronte della blu tongue, con il via libera alla movimentazione dei capi anche dalle aree interessate dal sierotipo tre. Prosegue il lavoro di monitoraggio del quadro epidemiologico sul territorio, con il massimo impegno di tutte le forze in campo: la direzione generale dell’assessorato della Sanità, l’Osservatorio epidemiologico veterinario regionale, i servizi veterinari delle Asl e l’Istituto zooprofilattico, in stretto raccordo con il Ministero della Salute e il centro di referenza nazionale per le malattie esotiche di Teramo”, conclude l’esponente della Giunta Solinas.

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Fonte: Ogliastra News Roberto Anedda

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In Sardegna non mancano i luoghi suggestivi e ricchi di fascino.

Uno di questi è sicuramente è il parco archeologico di “Biru de Concas”, letteralmente significa sentiero delle teste, che si trova nel territorio di Sorgono.

Qui si può ammirare la più grande concentrazione di menhir del Mediterraneo – oltre duecento – lavorati dagli scalpellini e che risalgono a circa 5mila anni fa.

Molte di queste pietre sacre sono ancora in piedi,  altre sono cadute a terra o spezzate e sicuramente tante sono ancora nascoste nel terreno.

Questi menhir sembrano “guerrieri” antichi messi a guardia di questi luoghi e sono orientati a ovest dove tramonta il sole.

“Biru Concas” viene denominato la “Stonehenge” sarda, ma non ha niente da invidiare con il celebre complesso megalitico della Gran Bretagna.

Innanzitutto perché è più antico e a differenza del sito archelogico inglese, dove sono state spostate le pietre alle fine dell’ottocento del secolo scorso, i menhir di “Biru Concas” si trovano ancora nella stessa posizione in cui sono state ritrovate.

Inoltre nel sito archeologico del Mandrolisai, si possono ancora osservare resti di capanne circolari, mentre a poca distanza si possono ammirare: due nuraghi –  uno “a corridoio” e il maestoso Talei -,  una tomba di Giganti e un dolmen.

Per arrivare al sito, basta prendere la strada che da Sorgono porta al Santuario di San Mauro e successivamente proseguire per alcuni chilometri.

Sicuramente un luogo della Sardegna da conoscere e visitare.

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Fonte: Ogliastra News Roberto Anedda

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L’origine del nome di Arbatax, antico villaggio di pescatori, è ancora di origine incerta. Secondo una contestata teoria la parola deriva dall’arabo “arba at ashara” che significherebbe la “quattordicesima” (torre costiera) di avvistamento, edificata in epoca spagnola, partendo dal sud dell’isola. Secondo gli studiosi la teoria non è attendibile in quanto si ritiene inconcepibile che gli Arabi o i Saraceni, temutissimi nemici dei Sardi, abbiano indotto questi ultimi a utilizzare un loro toponimo.

Secondo lo studioso Wagner invece, il nome di Arbatax è l’unico fra i toponimi sardi di sicura derivazione araba e il Canonico Giovanni Spano giustificava il significato del nome “Quattordici” facendo riferimento ad un fatto accaduto a 14 prigionieri o abitanti mori della torre.

Secondo Massimo Pittau, un altro studioso, la più antica attestazione del toponimo risale agli anni 1580 – 1589 e compare nella Chorographia Sardiniae di G. F. Fara che parla di “promontorium Arbatagii”. Lo studioso invita a confrontare (ma non a far derivare) il nome, con quello di altri toponimi sardi quali Albitru, Albitròni (Olbia) e col latino arbutus, arbitus “corbezzolo”. Quest’ultimo vocabolo è interessante, soprattutto se si considera il fatto che il corbezzolo cresce anche nelle località vicine al mare.

Secondo un ultima interpretazione infine, il nome di Arbatax sarebbe il risultato della corruzione della parola Baccasara. Nel registro delle rendite pisane il salto di Baccasara è infatti chiamato Batassar, da cui deriva Albatassar e quindi Arbatax, (con x = ss).

Nelle carte del Settecento e dell’Ottocento, la Torre di Bellavista (rappresentata nella “Carta del Regno di Sardegna” del 1746), era chiamata infatti anche Torre di Baccasara.

Fonti: Massimo Pittau: “Toponimi della Sardegna meridionale”. 

 

 

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Fonte: Ogliastra News Roberto Anedda

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Vi siete mai chiesti quale sia il nuraghe situato a maggiore altezza in Sardegna?

Ebbene, questo primato spetterebbe al Nuraghe “Ura de Sole” – nel territorio di Desulo – situato nella sommità de “Bruncu Nuraghe” all’altezza di 1331 metri sul livello del mare, nei pressi del passo Tascusì. A confermarlo anche il sito del comune montano della provincia di Nuoro.

Il nuraghe purtroppo si trova in pessime condizioni, infatti qui affiorano solo i resti dell’antico edificio, che sarebbe stato distrutto negli anni ’70 a causa di interventi insensati effettuati da mezzi meccanici pesanti, da parte dell’uomo.

Ph: Daniele Zanda – Nurnet

In questo luogo si può osservare un panorama vasto e davvero suggestivo, che fa comprendere l’importanza strategica del nuraghe in epoche remote.

Intorno al massiccio del Gennargentu le popolazioni nuragiche si sono spinte anche in altre località tra i 1100 e 1300 metri. A tal proposito, il complesso archeologico più famoso è quello di Ruinas – in territorio di Arzana – posto a 1197 metri sul livello del mare. Questo antico insediamento umano si dice fosse abitato fino al Medioevo, la tradizione orale racconta sia stato abbandonato a causa di una drammatica pestilenza intorno al XIV secolo che avrebbe decimato la popolazione.

I sopravvissuti furono accolti ad Arzana e si stabilirono nella parte estrema della periferia dell’abitato nella parte alta di “Preda de Maore”. Il Comune di Arzana così ereditò le terre di Ruinas.

 

 

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Come eravamo. Il pullman della linea Arbatax-Lanusei-Porto Torres negli anni Settanta.

La foto è stata gentilmente concessa dalla figlia di Pietro Aresu, che ebbe l’idea della tratta da percorrere con questo mezzo 306 Granturismo.

Invia anche tu le foto del passato ogliastrino alla mail redazione@vistanet.it ( indicando l’anno in cui è stata scattata).

 

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Lo sapevate? Le colonne del Pantheon di Roma sono state fatte con il granito delle cave sarde di Capo Testa.

ll Pantheon è un edificio della Roma antica che si trova nel rione Pigna nel centro storico della città, ed è un tempio dedicato a tutte le divinità passate, presenti e future. Fu fondato nel 27 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa, genero di Augusto. Fu fatto ricostruire dall’imperatore Adriano tra il 120 e il 124 d.C., dopo che gli incendi dell’80 e del 110 d.C. avevano danneggiato la costruzione precedente di età augustea.

Capo Testa è invece una piccola penisola (in realtà un’isola, poi artificialmente collegata alla terraferma) che si trova nel nord della Sardegna, a pochi chilometri da Santa Teresa di Gallura.

Si affaccia sulle Bocche di Bonifacio davanti alla Corsica ed è collegata alla terraferma da uno stretto istmo, lungo il quale si estendono due spiagge. Il promontorio è costituito dalle tipiche rocce granitiche galluresi erose dal vento.

I Romani frequentarono Capo Testa in due tempi: una prima fase compresa tra il I secolo a.C. e il I d.C. e una seconda, in età imperiale avanzata, tra il II e il IV secolo.

L’attività estrattiva e lavorativa del granito avveniva lungo il litorale, quanto più vicino all’acqua in modo da poter caricare i manufatti sulle navi. Sono ancora chiaramente visibili i tagli “a gradoni” nelle scogliere e si trovano, sparsi, enormi massi semilavorati, tra questi alcuni abbozzi di colonne.

Le cave di Capo Testa furono sfruttate anche in epoca medioevale: lì furono estratte le colonne che servirono per la costruzione del Duomo e del Battistero di Pisa.

Il Pantheon romano è composto da una struttura circolare unita a un portico in colonne corinzie (otto frontali e due gruppi di quattro in seconda e terza fila) che sorreggono un frontone.

La grande cella circolare, detta rotonda, è cinta da spesse pareti in muratura e da otto grandi piloni su cui è ripartito il peso della grande cupola emisferica in calcestruzzo che ospita al suo apice un’apertura circolare detta oculo, per l’illuminazione dell’ambiente interno. A quasi due millenni dalla sua costruzione, la cupola del Pantheon è ancora oggi una delle cupole più grandi del mondo.

Il pronao è formato da 16 colonne, 8 colonne di granito grigio in facciata e 8 colonne di granito rosa provenienti dalle cave di Mons Claudianus e di Assuan (Egitto), distribuite nelle due file retrostanti.

All’inizio del VII secolo il Pantheon è stato convertito in basilica cristiana chiamata Santa Maria della Rotonda o Santa Maria ad Martyres: questo gli ha consentito di sopravvivere quasi integro alle spoliazioni inflitte dai papi agli edifici della Roma classica. Gli abitanti di Roma lo chiamavano popolarmente la Rotonna (“la Rotonda”).

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Lo sapevate? Dalle radici della genziana maggiore si ottiene un ottimo liquore.

In Sardegna c’è un’erba perenne molto rara, la genziana maggiore, dalle cui radici si ottiene un digestivo molto apprezzato per il suo sapore e le sue qualità.

 

La pianta di genziana maggiore è alta da 40 a 150 cm e fiorisce per la prima volta a dieci anni di età. I fiori sono a corolla gialla, disposti alle ascelle delle foglie, in gruppi ben distanziati. La radice è a fittone. Il frutto è una capsula ovale.

Salvo pochissime stazioni sui rilievi del Gennargentu, dove è ancora presente, è una pianta rara da incontrare, a causa della (eccessiva) raccolta in Sardegna per via delle radici, che hanno proprietà medicinali: oltre ad essere un’erba antichissima, è famosa per le proprietà digestive, diuretiche, tonificanti, antibiotiche delle sue radici.

Molto amato il liquore, dove è la preziosa radice che – messa in infusione – rende particolarissimo l’amaro digestivo.
Non è molto comune. È una pianta protetta e la raccolta è vietata. Attenzione inoltre: è molto simile al veratro, pianta tossica sia per l’uomo che per gli animali.

Fiorisce tipicamente tra giugno e luglio.
Vive in prati ed alpeggi poco umidi, su terreni calcarei. È diffusa fino ai 2200 m s.l.m; in Sardegna è presente in particolar modo nell’area del Gennargentu, specie a Talana sul monte Genziana che ne prende il nome.

Il suo nome, secondo alcuni, deriva da Genzio, re dell’Illiria che nel 160 a.C., scoprì la pianta (ed i numerosi effetti benefici delle radici). L’epiteto “maggiore”, con cui è comunemente denominata la specie, si riferisce alle sue dimensioni, superiori a quelle delle altre specie del genere Gentiana, mentre il termine “lutea” si riferisce al colore giallo dei fiori (per distinguerla dalle genziane blu delle alpi).

Nella raccolta può essere confusa con il tossico veratro (Veratrum album) per la morfologia simile ma con foglie alterne e non opposte.

La pianta ha proprietà febbrifughe, toniche, vermifughe; si utilizza la radice essicata. Stimola l’appetito e aiuta la digestione. In quanto pianta medicinale veniva coltivata già durante il Medioevo. Per il gusto amaro ma profumato e le proprietà digestive viene largamente usata in liquoreria, entrando nella composizione di diversi amari.

La genziana è conosciuta fin dall’antichità per avere virtù terapeutiche, infatti veniva adoperata come antipiretico nelle febbri malariche e come rinforzante del sistema immunitario, oltre che come digestivo.

Dal gusto aromatico e definito, l’amaro di genziana viene prodotto a fine estate, tra Agosto e Settembre, quando si raccolgono le radici della pianta.

Se lo si vuole preparare in casa però, poiché la genziana è una specie protetta e la sua raccolta è sottoposta a regolamentazione, occorrerà acquistarne in erboristeria le radici essiccate.

Liquore di Genziana – ricetta
Ingredienti
Gli ingredienti necessari per la preparazione dell’amaro di genziana sono:

20 g di genziana maggiore;
10 g di menta essiccata;
la scorza essiccata di un’arancia amara;
bacche di ginepro;
foglioline di salvia;
semi di finocchio;
1 l di vino bianco secco;
80 ml di alcol a 95 gradi;
50 g di miele.
Preparazione
Sugli ingredienti va versato:

il vino bianco secco, l’alcool a 95 fino a coprirli completamente;
lasciare il tutto a macerare per almeno dieci giorni;
mescolare almeno una volta al giorno con un cucchiaio di legno;
trascorsi i dieci giorni, il liquore va filtrato con l’ausilio di un colino e vanno aggiunti , mescolando bene, 50 g di miele.
Si può quindi versare l’amaro di genziana così ottenuto, in bottiglie di vetro che vanno lasciate riposare in luogo fresco e buio.

La gradazione alcolica risultante del liquore è, in media, di 16 % vol. Il liquore di Genziana ha un colore ambrato ed è caratterizzato inizialmente da un gusto dolce, poi connotato da un’intensa nota amara.

Essendo una pianta protetta dalla L.R. 45/1979 (tab. 1 all. A) può essere raccolta, come cita l’art. 11 della legge stessa, previa autorizzazione da parte degli Ispettorati Dipartimentali delle Foreste solo “per scopi scientifici, didattici, medicamentosi e erboristici, mediante rilascio di licenze temporanee, di durata non superiore ad un anno, rinnovabile, contenete l’indicazione della località ove consentita la raccolta o l’estirpazione della specie, della finalità della raccolta e della quantità consentita e delle modalità per provvedervo…”

La radice contiene principi amari: genziopicroside (3,5 – 15 %) e amarogentina (0.01 – 0.5%); è inoltre ricca di zuccheri (genzianosio, genziobiosio, e saccarosio) fino al 50 – 60 % sul secco

 

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Fonte: Ogliastra News Roberto Anedda

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Tutte donne tra chef e maestre pastaie, con un’energia innata e un’idea vincente che mostra il legame, indissolubile, tra i sardi e le sarde e la propria terra: sono Vitalia Scano, Marina Ravarotto, Viviana Amorino, Tonina Biscu, Anna Saba e Annalisa Atzeni a mandare avanti, con la collaborazione dell’enogastronomo e presidente di Stelle del Sud di Gilberto Arru e dello studioso Vincenzo Palimodde, il progetto “A cena con Grazia”, in ricordo della scrittrice sarda Grazia Deledda che, oltre ad amare cucinare, ha spesso inserito nei suoi libri i piatti della tradizione enogastronomica sarda.

La voglia – come racconta la chef Viviana Amorino – era quella di organizzare qualcosa fatto dalle donne per le donne: «Volevamo dimostrare che riusciamo a fare team in maniera egregia, sfatando un po’ di luoghi comuni e stereotipi.»

Ma l’idea, nata dall’amicizia tra Gilberto Arru e Vitalia Scano, chef Patron del ristorante Sandalia di Roma, è diventata via via più concreta fino a spiccare il volo con alcune serate, rivelatesi successoni.

Ma quando il team si incontra?

«Diciamo che in un certo senso è tutto merito di Vitalia,» racconta la Amorino «lei conosceva sia me che Marina. Gilberto le ha presentato Vincenzo Palimodde e sua moglie Tonina. Abbiamo conosciuto Anna a una dimostrazione di filindeu, mentre la conoscenza con Annalisa è legata a Facebook e ad un’amica in comune. Conoscerci e diventare veramente amiche è stato un tutt’uno, ci siamo come ritrovate, nel nostro gruppo c’è una sinergia ed un’armonia incredibile. Abbiamo fatto team ancora prima di esserlo e già dalle prime videochiamate si sentiva che sarebbe andata bene.»

Obiettivo del progetto? Trasformare le cene di beneficenza da semplici occasioni per mangiare bene a eventi a tutto tondo, dove si è immersi in un’atmosfera letteraria. «Tutto questo è stato possibile grazie a Vincenzo Palimodde, unico uomo del team, che studia la vita e le opere di Grazietta da sempre e che 22 anni fa ha steso un menù con i piatti citati dalla Deledda, con ricette di 130 anni fa. Lui, ancora prima che il piatto arrivi in tavola, lo fa assaporare ai nostri ospiti, permettendo loro di immedesimarsi nella vita di Grazia, spiegando il piatto e citando l’opera da cui è stato tratto.»

Prossima tappa? Nuoro, il 10 dicembre 2022: assolutamente non casuale.

Era il 10 dicembre del 1926 quando la Deledda venne insignita del Premio Nobel, ed ecco svelata la scelta della data.

Seguirà un’ulteriore cena a Olbia, l’11 dicembre.

«Quale giorno migliore per ricordare Grazia nella sua Nuoro e in un ristorante che si chiama proprio Nobel 26?» svela la Amorino. «Il ricavato di ogni cena va all’iniziativa benefica che sentiamo più vicina e urgente in quel momento. A Guidonia e a Nuoro la scelta è ricaduta sull’associazione Stelle del Sud di Gilberto Arru che si occupa di rendere vivibili e fruibili le infrastrutture al piccolo villaggio di Orangea, in Madagascar, e sicuramente avremo altre serate con e per loro, mentre l’11 aiuteremo le attività del volontariato vincenziano di Olbia. Il perché è molto semplice: fare del bene fa bene al cuore, ed è bellissimo fare del bene facendo ciò che amiamo di più.»

Presto, ci saranno altre date: Toscana, Lazio ma ancora e sempre la Sardegna, con tante novità in arrivo – parola del team. «Se siete curiosi basterà seguire le nostre pagine social di “A cena con Grazia”.»

«Siamo donne, multitasking per antonomasia!» afferma poi, con la risata negli occhi, quando si parla di conciliare gli impieghi come chef e maestre pastaie con questo nuovo, ambizioso progetto. «E in più ci divertiamo tantissimo. Il nostro team è fantastico, si lavora duramente ma sempre col sorriso, a volte c’è un’aria da gita scolastica, specie fuori dalla cucina. Siamo tutte professioniste e conosciamo bene quelli che sono i nostri compiti e i nostri ruoli. Tra di noi non esistono prevaricazioni, si decide tutto insieme e il clima è sempre disteso, professionale ma rilassato. Non abbiamo primedonne, siamo solo delle amiche che fanno del bene… divertendosi!».

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

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Nelle ultime ore, i Carabinieri della Compagnia di Lanusei hanno effettuato un servizio straordinario di controllo del territorio Ogliastrino.

I servizi di prevenzione sono iniziati nel comune di Lotzorai dove i militari delle Stazioni Carabinieri di Urzulei, Talana, Santa Maria Navarrese e della Squadriglia Anticrimine di Lanusei, hanno posto in essere dei posti di blocco ed effettuato mirati controlli sia per prevenire e contrastare l’illecito utilizzo di sostanze stupefacenti che per assicurare ai cittadini maggior standard di sicurezza.

Al particolare servizio hanno partecipato fornendo il costante e specialistico contributo i cacciatori di Sardegna che con due unità cinofile hanno permesso di controllare in maniera certosina sospettati e luoghi solitamente frequentati da pregiudicati. Sono state effettuate perquisizioni personali e controllate circa 100 persone, elevate 5 contravvenzioni per violazioni al codice della strada.

Le attività di controllo continueranno in maniera assidua per un periodo di festività all’insegna della sicurezza.

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

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“Milia vatu’ sa trota
pro sa die ‘e s’isposonzu
carculanne su bisonzu
ca non b’ana cosa cotta
su maritu ‘e Liotta
su connatu ‘e Mugrone”.

Inizia così “Su cojuviu novu de Cadone”, la poesia scritta da Giovanni Antonio “Tottoi” Farre e resa celebre nel mondo dai Tenores de Bitti “Mialinu Pira”, uno dei gruppi a tenore più famosi e conosciuti della Sardegna.

Ma cosa racconta questa poesia cantata magistralmente dai tenores barbaricini?

La storia di “so cojuviu novu de Cadone”, il nuovo matrimonio a Cadone, viene raccontata nel sito ufficiale dei Tenore de Bitti, che cita il libro “Cale memoria pro sos remitanos” scritto da Natalino Piras e Giulio Albergoni.

“Con questa poesia Tottoi Farre si prende gioco di un suo compaesano e vicino di casa di nome Luiseddu, abitante nel quartiere di Cadone, il più povero del paese – si legge nel sito -. Lo sfortunato Luiseddu, si era innamorato di una ragazza e fattosi coraggio, era andato a pretenderla in sposa a casa sua. Naturalmente il poeta Tottoi prese al volo questa notizia ed iniziò a scrivere questa poesia dove ipotizza l’evento matrimoniale con tanto di invitati e regali, tutti provenienti dallo stesso quartiere di Cadone. Cadone era un piccolo quartiere al centro del paese di Bitti , abitato da povera gente che viveva alla giornata, sbarcando il lunario con piccoli lavori, e che ora, in vista del matrimonio , dovrà portare dei doni, alcuni dei quali rasentano il ridicolo: il Sig. Milia porta una Trotta, il Sig. Intollu e il Sig. Moieddu Murru regalano un mattone che servirà agli sposi per iniziare la costruzione del forno, il Sig. Reateddu aspetta che la sua cagna partorisca per poter regalare un cucciolo, il Sig. Malebonu non ha nulla da dare, gli è persino morta la gatta perché ha mangiato il sapone”.

Ed ecco il testo integrale:

Milia vatu’ sa trota
pro sa die ‘e s’isposonzu
carculanne su bisonzu
ca non b’ana cosa cotta
su maritu ‘e Liotta
su connatu ‘e Mugrone

De su cojuviu novu
n’es cuntentu Cadone

Buzzuiu chin Zoseppedda
Vruttuosa chin Cozzette
preparan sos amarettes
pro s’isposu ‘e Luiseddu
dae Untana ‘e Chiseddu
ghira’ chene pantalones

De su cojuviu novu
n’es cuntentu Cadone

Latur d’ava e una pudda
lì regalat Caziollu
pro jocaren’a zirollu
cann’istan chene ache’ nudda
dae cue eni’ sa brudda
sa bria sa chistione

De su cojuviu novu
n’es cuntentu Cadone

Sintollu e Mojeddu Murru
son ‘arrejon’e pare
ite l’amus a donare
a custu cane muzzurru
chi chi canno ache’ s’urru
li regalo su mattone

De su cojuviu novu
n’es cuntentu Cadone

Vinamenta’ Reateddu
cantu cuntentu rimanet
a canno cria’ sa cane
lir regalat su cazzeddu
pro tentare a Luiseddu
ca time’ su mammuzzone

De su cojuviu novu
n’es cuntentu Cadone

Bainzu chin franzisc’anna
Pauledda ‘e Montesu
preparan su pinutesu
ca er donu ‘e zente manna
e tanno puru Grass’Anna
lir giuchet su curizzone

De su cojuviu novu
n’es cuntentu Cadone

Pretu ‘e Jana er ridenne
chin su murru che porcheddu
nannebil’a Luiseddu
a ti la se intennenne
chi si in cue ti nche penne’
ti toccan che malinzone

De su cojuviu novu
n’es cuntentu Cadone

E binas Anghelu Rusta
lir regala’su puddichinu
tottu custa e’ sa vrausta
de sa izza ‘e Zesarinu
jà t’a jutu mal’ustinu
gherranne chi’ sa curusta
Vittoria li na’ sa justa
no’ b’a mancu paragone

De su cojuviu novu
n’es cuntentu Cadone

Pretore chin Pezzoreddu
Salvatorina ‘e Burua
istan sempres cua cua
pro no ider a Luiseddu
ei sa mama a tocheddu
lir regalo sas ambesuas
ca cussu puru jà aiuat
non giucat s’iframassone

De su cojuviu novu
n’es cuntentu Cadone

Dae orar de ichinatu
bi li supri’ Malebonu
ca no’ b’at ateru donu
nche lir juchet s’imbiatu
sa die er morta sa gattu
c’a mannicatu sapone

De su cojuviu novu
n’es cuntentu Cadone.

 

L’articolo “Milia vatu’ sa trota…”: “su cojuviu novu”, la poesia più famosa cantata dai Tenores de Bitti proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

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