Racconta una popolare leggenda gallurese che i sorsensi siano tutti matti. O meglio, nell’Isola si dice che “Sossù, Calangianus e Lodè sono macchi tutti e tre“. E, secondo un mito dal retrogusto obelixiano, a causare la pazzia sarebbe stata l’acqua della celeberrima fontana della Billellera.

Ma facciamo un passo indietro. Ancora oggi, nella cittadina sorsense, è possibile vedere l’oramai simbolica fontana, fatta costruire nel Seicento dal barone Deliperi a imitazione di quella del Rosello di Sassari. Due sono in realtà le versioni del mito, parzialmente discordanti ma entrambe convergenti sugli effetti fantastici dell’acqua della Billellera.

La prima racconta che gli abitanti di Sorso, invidiosi per la bellezza dell’omologa fontana realizzata nella vicina città di Sassari, avrebbero tentato la folle impresa di trascinarla nella propria cittadina legandola con alcune robuste corde. Sarebbero stati i sassaresi, per questo motivo, ad additarli come maccus, adducendo la loro pazzia all’acqua della Billellera. La seconda versione legherebbe invece il proverbiale motto alla esagerata sontuosità della fontana sorsense, ritenuta follemente elegante per un paese tanto modesto. Il giudizio si sarebbe così diffuso fra le comunità vicine, diventando oggi noto in tutta l’Isola.

Come spesso accade anche le vicende che ruotano attorno alla leggendaria fontana avrebbero un fondo di verità storica. Come racconta Enrico Costa, infatti, alla base dell’intera questione sarebbe stato un accordo economico andato a male fra la città di Sorso e la vicina Sassari. Le due avrebbero infatti avuto, inizialmente, un’intesa in merito all’uso condiviso della fontana del Rosello, infranta in un secondo momento dai sassaresi, che avrebbero accampato pretese di esclusività sulla stessa.

A seguito di lunghe lotte, combattute dalle due comunità senza esclusione di colpi, i sorsinchi si sarebbero rassegnati alla necessità di costruire una seconda fontana. Sarebbe nata così la fontana della Billellera, dalla quale – secondo il racconto fantastico diffuso dai sorsensi per ripicca – non sarebbe sgorgata acqua bensì ottimo vino. Una storia peraltro decisamente credibile, e certamente collegabile al vino notoriamente eccellente prodotto nella cittadina turritana.

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Fonte: Ogliastra News La Redazione

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In pochi sanno che l’introduzione in Italia del cemento armato la si deve a un vero e proprio “self-made man” sardo, un uomo che partito dal nulla divenne uno dei più influenti ingegneri italiani a cavallo tra la fine dell”800 e gli inizi del ‘900.

Giovanni Antonio Porcheddu, nacque a Ittiri, in provincia di Sassari, nel 1860. Rimase presto orfano di entrambi i genitori e dopo essere stato cresciuto dai parenti stretti riuscì a concludere un brillante percorso di studi mantenendosi facendo il muratore.

Dopo la laurea al Politecnico di Torino, ottenuta a 30 anni, e una seconda e una terza, conseguite sempre nella prestigiosa università piemontese, Porcheddu nel 1892 rimase affascinato dal brevetto del cemento armato dell’ingegnere francese François Hennebique e ne ottenne subito la licenza, in esclusiva, per l’intero territorio italiano.

La mossa di Porcheddu fu a dir poco azzeccata e le applicazioni del brevetto a dir poco sensazionali: lo studio Porcheddu lavorò alla realizzazione dei silos del porto di Genova, alla ristrutturazione del campanile di San Marco a Venezia, lo “Stadium” di Torino, e soprattutto lo stabilimento “Lingotto” della Fiat.

Nel 1911, durante l’inaugurazione del ponte Risorgimento a Roma, per smentire i dubbi dei presenti sullas tabilità dell’opera, assistette alla rimozione dell’impalcatura lignea a bordo di una barca ormeggiata sotto il ponte.

 

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Anche se alcuni non amano l’odore forte, l’aglio è uno dei condimenti più diffusi nella cucina sarda,e fin da tempi antichissimi veniva utilizzato nell’Isola. L’aglio contiene numerosi sali come potassio, calcio, fosforo e selenio. Inoltre contiene buone quantità di acido ascorbico, un antiossidante. Influisce positivamente nel metabolismo energetico non a caso gli antichi ritenevano che conferisse vigore e lo facevano consumare in abbondanza agli atleti prima delle gare.

L’aglio come dimostrano alcuni studi scientifici rinforza le difese immunitarie, ma una delle proprietà più note dell’aglio è quella di abbassare la pressione sanguigna, esistono infatti in commercio numerosi integratori a base di allicina utilizzati proprio per combattere l’ipertensione. Inoltre svolge una funzione disintossicante sul fegato. L’aglio ha un forte potere antibatterico, e viene considerato a buon diritto un antibiotico naturale tra i più efficaci, che se assunto crudo nella dieta elimina anche i parassiti intestinali.

Purtroppo però l’aglio ha un effetto collaterale per molti fastidioso: l’odore pungente che conferisce all’alito a causa dell’alto contenuto di zolfo. Se consumato in dosi elevate può creare problemi agli ipotesi. La dose consigliata affinché l’aglio sia efficace è di almeno uno spicchio al giorno consumato crudo.

L’aglio trova anche applicazione come antiparassitario naturale delle piante utile per tenere lontani afidi e cocciniglie. Infatti quando l’aglio fresco viene danneggiato o schiacciato emette una sostanza chiamata allicina che serve al bulbo per proteggersi dai parassiti, per questo una soluzione d’acqua in cui sono stati lasciati a macerare degli spicchi d’aglio schiacciati sarà utilissima per liberare le piante dai parassiti.

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Articolo di Chiara Schiavone.

Antonio Lai, foghesino di 86 anni, ci racconta la leggenda del Conte Basilio.

In tempi remoti la gente era solita ritenere che i vecchi fossero inutili per la società e, di conseguenza, era divenuta usanza comune liberarsi di essi, gettandoli dentro i dirupi. In molti avranno certamente sentito parlare di questa storia ma le versioni sono tante; ognuna legata al proprio territorio. Anche Perdasdefogu possiede la sua leggenda: Un giorno un giovane, osservando suo padre oramai divenuto vecchio e stanco, decise di caricarlo sulle sue spalle e di recarsi verso il dirupo.

Giunto a metà strada però, decise di fermarsi per riposare un po’; nel mentre suo padre, seduto su una pietra, si rivolse al figlio dicendo: <>

Qualche tempo dopo il Conte Basilio, l’uomo più ricco e potente di Perdasdefogu, fece un annuncio: <> Quando il giovane seppe la notizia, si affrettò ad informare suo padre. Quest’ultimo dopo qualche minuto disse: <> Il giovane prontamente si affrettò a chiedere di che cosa si trattasse ma il vecchio rispose: <>

Il giorno arrivò e finalmente giunse anche il turno del giovane uomo che, guardando il Conte dritto negli occhi, si rivolse a lui mediante la frase dettatagli dal padre. Udite le parole Don Basilio rispose dicendo: << hai proprio ragione mio caro, perché della rugiada primaverile, ottima per ogni tipo di campo, può usufruire tutto il paese; mentre il carro è a disposizione di una sola persona. Solo adesso però comprendo che questa frase è frutto della saggezza di un vecchio a cui sicuramente non hai avuto il coraggio di dire addio. >> Terminato il discorso radunò tutti quanti, donò il carro al giovane uomo e si rivolse a tutti dicendo: <> La leggenda narra che da quel momento i foghesini cominciarono a considerare i vecchi come uno dei doni più importanti della vita, smettendo di buttarli dentro i dirupi.

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Nella Gola di Gorroppu viveva una bellissima fanciulla che dimorava nella dolina di Adarre. Ben pochi erano i pastori che l’avevano vista da vicino, ma chi aveva avuto la fortuna di intravederla, anche a distanza, la descriveva di una bellezza impareggiabile. La fanciulla usciva dalla sua voragine, attraversava un passaggio segreto, e sbucava in un bosco di lecci. Qui si sedeva su uno sgabello d’oro e si metteva a dipanare la lana su un telaio anch’esso dorato.

Talvolta i pastori la vedevano in lontananza boschi e valli su un cavallo bianco, ma quando cercavano di rintracciarla non riuscivano nell’intento perchè le orme del suo cavallo segnavano una direzione diversa da quella in cui la bella signora, che tutti ritenevano una fata, era stata avvistata.

I pastori, quindi, fecero la posta per alcuni giorni e le loro speranze non furono deluse: videro la jana che, all’uscita del tunnel, girava a rovescio gli zoccoli del suo cavallo. Allora capirono perchè nessuno era mai riuscito a rintracciarla.

La fanciulla, in groppa al destriero, girava per i salti del Supramonte di Orgosolo, penetrava nell’ombrosa Gola di Gorroppu e si addentrava nella “pischina e urthaddala” che tutti credevano un pozzo senza fondo. Questo suo vagabondare aveva acceso la fantasia dei giovani e tutti avrebbero voluto vederla in volto. I più intraprendenti avevano notato che la ragazza, all’alba, non mancava mai di mostrarsi nella zona detta di S’Ascusoriu. Qui scompariva, come se la terra l’avesse inghiottita insieme al cavallo e non ricompariva se non dopo il tramonto del sole.

Quindi tutti si convinsero che la fata si nascondesse in una grotta dove celava un tesoro. I mandriani avevano sempre sentito parlare, infatti, di un immenso tesoro portato dall’Oriente e nascosto in quel luogo da un popolo che lì si era stabilito quando vennero costruiti i nuraghi. I pastori lo avevano tanto cercato ma senza risultato.

Un giorno capitò nel Supramonte un vecchio, esperto in arti magiche, che in fatto di tesori la sapeva lunga. “Se la fata della voragine di Adarre custodisce un tesoro, voi non lo troverete mai perché solo chi ha l’anima pulita può trovare un tesoro che non proviene da rapine. Servono anime innocenti, bambini. Solo loro potrebbero entrarne in possesso senza averne alcun danno” disse ai pastori.

Quando venne il bel tempo, due pastori, incuranti dello scetticismo dei compagni, portarono all’ovile del Supramonte i figli, un maschietto e una femminuccia di sette e otto anni. Fecero loro visitare la zona e chiesero loro di non temere, qualsiasi cosa vedessero. “A voi che siete innocenti nulla può fare del male. Se vedete una signora, donatele questo agnello e questo capretto e chiedetele in compenso il telaio d’oro”.

Detto ciò, i genitori si allontanarono lasciando i figli vicino alla grotta, dove si diceva che la fanciulla comparisse. I bimbi giocavano sereni con le due bestiole quando videro dinnanzi a loro il cagnolino della fata. Questo non abbaiò per tre volte come era solito fare quando qualche adulto si avvicinava ma annusò i bambini e si mise a giocare con loro. Ben presto comparve anche la Jana. I bimbi la guardarono ammirati: non avevano mai visto una signora tanto bella. Subito ricordarono le parole dei genitori e le offrirono gli animali, chiedendo in cambio il telaio d’oro.

“Il telaio non posso darvelo” rispose la fata “nelle vostre mani diventerebbe subito di legno. Ma vi darò un’altra cosa”. Scomparve per un istante, poi tornò con un recipiente colmo di monete d’oro. “Non dovete dire a nessuno chi ve le ha date” raccomandò la fata. Prese quindi con sé l’agnello e il capretto e seguita dal cagnolino, scomparve. Da allora la fata di Adarre non si fece mai più vedere da quelle parti.

A lungo i pastori ispezionarono la zona intorno alla dolina, con la speranza di scorgerla anche per un solo istante in groppa al suo cavallo o intenta a tessere, ma nessuno la vide più o sentì abbaiare tre volte il suo cagnolino.

 

Leggenda tratta dal libro di ” Leggende e racconti popolari della Sardegna”, Newton Compton editori, 1984

 

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Per 12 anni dal 1905 al 1917 Orgosolo visse una sanguinosa faida che vedeva contrapposte le famiglie dei Cossu e dei Corraine. Tutto ebbe origine, pare, da una discussione per motivi di eredità, quando fu ucciso il 3 aprile 1905 Carmine Corraine per mano di un esponente della famiglia Cossu.

Da quel momento si formarono due fazioni e non c’era famiglia nel paese che non fosse schierata per l’una o per l’altra fazione. Ne scaturì una lotta senza quartiere, una catena di omicidi, che uno Stato debole e assente non riusciva a fermare. È in questo contesto che crebbe Paska, ancora bambina quando iniziò la faida. Apparteneva a una famiglia agiata, quella dei Devaddis, alleata con i Corraine. Quando era poco più che una bambina suo fratello venne accusato dell’omicidio di Antonio Succu, appartenente alla fazione dei Cossu. Dal momento che alcuni testimoni affermarono che anche Paska era presente sul luogo del delitto, fu spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti anche se probabilmente era innocente, così la famiglia Devaddis fu costretta a darsi alla macchia.

La giovane seguì la famiglia nella latitanza insieme anche al suo fidanzato. Ma la vita del latitante era durissima, il Gennargentu in novembre si rivelò fatale per la fanciulla già esile e cagionevole. Dopo qualche mese di latitanza morì, si seppe in seguito ancora vergine, di tubercolosi. Era il 1913. I suoi compagni di latitanza per rispettare il loro codice d’onore, con incredibile audacia trasportarono il suo corpo fino alla casa natale, attraversando il paese di Orgosolo, asserragliato dai nemici e presidiato dalle forze dell’ordine. Secondo il codice barbaricino infatti a chi moriva in latitanza senza far ritorno alla propria casa veniva riservato il disonore perpetuo. E così questi uomini, assassini e fuorilegge, ma rispettosissimi della propria legge, portarono la Povera Paska nella sua casa ormai disabitata, la deposero nel suo “Tapinu de mortu” vestendola con il suo abito più bello, quello da sposa che non avrebbe più potuto indossare, salvandole l’onore a costo della loro stessa vita. Nel 1917 si tenne a Sassari il così detto “Processone”, una lunga serie di udienze, un incredibile numero di imputati e testimoni, nel tentativo di individuare i colpevoli e dirimere la disamistade di Orgosolo. La sentenza fece scalpore e all’epoca si disse che lo Stato dovette scendere a patti col Codice Barbaricino: non ci fu nessun colpevole, nonostante l’interminabile catena di omicidi gli imputati vennero tutti assolti. Quindi la povera Paska, sicuramente una vittima della faida, se fosse sopravvissuta alla latitanza sarebbe stata assolta da uno Stato che prima di intervenire lasciò che sul terreno rimanessero un’infinità di morti. E dopo il suo intervento non fu in grado di individuarne i responsabili. (Dalila)

 

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Troppo spesso negli ultimi anni ci siamo fatti affascinare dai cosiddetti “superfood”, alimenti esotici ricchissimi di proprietà benefiche, ma anche molto cari e difficili da reperire. Avocado, bacche di goji, quinoa, matcha, kefir e chi ne ha più ne metta. In realtà in Sardegna esistono tantissimi “superfood” nostrani. Uno di questi è sicuramente il finocchio, ortaggio nobilissimo che cresce assai rigoglioso nell’isola.

Il finocchio dolce (che si distingue da quello selvatico sia perché coltivato sia per il sapore) è innanzitutto un prodotto di stagione: al mercato lo troviamo infatti da novembre a marzo, anche se ormai non è difficile reperirlo tutto l’anno. Ma quali sono le innumerevoli proprietà del finocchio, de su fenugu per dirla in sardo?

Il finocchio selvatico

Quest’ortaggio è innanzitutto un micidiale disinotossicante naturale. Le sue proprietà antiossidanti e antinfiammatorie sono note fin dall’alba dei tempi. Aiuta a depurare il fegato e il sangue e una sostanza chiamata anetolo è utilissima per ridurre i gas intestinali e i crampi addominali. Non a caso viene spesso servito a fine pasto o in accompagnamento a piatti molto pesanti come le carni arrosto o in umido. Come alimento detox è ottima abche la tisana al finocchio.

Il finocchio è inoltre ricchissimo di vitamine (A e C in particolare) e di sali minerali, soprattutto magnesio e potassio.

Ultima caratteristica, ma non meno importante, è il fatto di avere un ridottissimo apporto calorico: 100 grammi di finocchio corrispondono a 9 kcal. Quest’ortaggio è composto infatti di acqua al 93%. Tutto il resto sono fibre, vitamine e sali minerali. Di grassi solo le tracce.

 

 

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Fonte: Ogliastra News La Redazione

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Le caratteristiche lunghe antenne sono il tratto distintivo di questo particolare insetto. Nodose e robuste, superano la lunghezza del corpo negli esemplari maschi, e invece hanno la stessa misura nelle femmine. In totale il corpo raggiunge le dimensioni di 6-7 centimetri.

Nelle varie zone dell’Isola, questo particolare insetto dal colore nero intenso, è conosciuto con vari nomi: “Corrittolu”, “Sei-sei”, “Brohà”, “Currantolu”, “Mammadriga”, “Coipira”.

Il Cerambice della quercia viene definito un “ingegnere” dell’ecosistema, in quanto è in grado di creare le condizioni di particolari habitat. Inoltre è una specie “ombrello”, visto che la sua conservazione consente la sopravvivenza di altre specie rare legate agli alberi. La Comunità Europea con la Direttiva Habitat tutela questo insetto, vietandone la cattura o l’uccisione. In passato la specie è stata considerata dannosa, a causa del fatto che le larve della specie divorano il legno, spesso causando danni all’albero ospite.

Ma solitamente si tratta di esemplari arborei già malati, raramente attacca piante sane. Il Cerambice ha una vita larvale piuttosto lunga – 3-5 anni – invece da adulto vive dal mese di giugno ad agosto.

In questo periodo di nutre di linfa e qualche frutto, poco distante dall’albero in cui è sviluppato. Il suo habitat sono soprattutto i boschi di quercia. I maschi adulti si scontrano in dure lotte per il possesso della femmina, e capita che vari esemplari riportino mutilazioni alle zampe o alle antenne.

Nelle foto, gentilmente concesse da Sergio Murgia, un esemplare fotografato in questi giorni a Seui.

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Fonte: Ogliastra News Roberto Anedda

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«Ad oggi sono ancora troppi gli incendi che hanno interessato la Sardegna nel 2020, seppure sotto la media degli ultimi dieci anni: 1.118 roghi che hanno coinvolto 2.355 ettari. Numeri che comunque hanno confermato l’operatività e l’efficienza della macchina antincendio regionale».  Lo ha sottolineato l’assessore della Difesa dell’ambiente, Gianni Lampis, in occasione della visita a Bono, dove ha effettuato un sopralluogo in elicottero nelle zone interessate dagli incendi di venerdì scorso, quando si sono verificati dodici focolai in un giorno solo.

Le operazioni di spegnimento, dirette dal Corpo forestale, avevano impegnato tre elicotteri leggeri in arrivo dalle basi di Farcana, Alà dei Sardi e Anela, un Superpuma, un Canadair, due squadre di Forestas ed una della compagnia barracellare. Sono finora 31 gli incendi che hanno coinvolto il Goceano: 13 a Bono, 10 a Bottida, 5 a Burgos e 3 ad Anela.

«È in corso un’intensa attività investigativa del Corpo forestale per individuare gli autori dei roghi di queste settimane – ha aggiunto l’Assessore dell’Ambiente – La stagione antincendio è ancora lunga, perciò serve un segnale forte nei confronti di questi delinquenti che mettono a repentaglio l’ambiente e l’incolumità dei Sardi. Le Istituzioni devono contribuire anche alla battaglia culturale contro la piaga degli incendi, a cominciare dai luoghi di formazione, come la scuola».

L’assessore Lampis, durante la visita alla stazione forestale, ha incontrato anche il sindaco di Bono, Elio Mulas: «Il Primo cittadino mi ha rappresentato il problema dei lavoratori trimestrali di Forestas. A questo proposito, ho ricordato che, in accordo con l’assessore del Lavoro, Alessandra Zedda, a breve porteremo all’approvazione della Giunta regionale una delibera del valore di un milione 300mila euro, che saranno utilizzati per l’inserimento dei lavoratori all’interno del progetto ‘Lavoras’ nell’ambito dei cantieri forestali». 

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Fonte: Ogliastra News La Redazione

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L’auto di un pensionato residente a Nuoro, per cause dovute ad un problema tecnico, ha preso fuoco. Sul posto è intervenuta una squadra dei Vigili del Fuoco di Siniscola che ha provveduto ad estinguere le fiamme e a bonificare l’area interessata.

Gravi i danni riportati dal veicolo che è stato totalmente avvolto dalle fiamme. L’autovettura ha segnalato dei problemi durante la marcia e il conducente ha immediatamente arrestato la vettura mettendosi in sicurezza.

Sul posto i Carabinieri e la Polizia Locale di Orosei.

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Fonte: Ogliastra News La Redazione

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