Intorno alle 16 di oggi, giovedì 9 febbraio, si è verificato un’incidente stradale al km 43 della SS 390 Nuoro/Lanusei.

Un settantenne ogliastrino, a bordo di un SUV mentre andava in direzione Lanusei, ha sbandato con il veicolo e dopo aver urtato il margine della carreggiata si è capovolto restando intrappolato all’interno del veicolo.

È stato soccorso da personale sanitario di passaggio al momento e estratto dai vigili del fuoco di Lanusei. Preso in consegna dal 118 è stato trasferito all’ospedale di Lanusei in codice rosso.

Sul posto anche la Polizia stradale di Nuoro per i rilievi di legge.

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

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Neve a bassa quota in Ogliastra.

Ecco Talana questo pomeriggio.

Nel video le case imbiancate dalla neve.

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

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Inarrestabile, la quarantenne runner/scrittrice tortoliese Maena Delrio corre a più non posso verso i suoi traguardi – siano essi in pista o letterari – e questa volta ci stupisce dandoci in pasto un thriller mozzafiato ambientato proprio nella sua città: Tortolì.

“Gli impiccati non muoiono subito”, vincitore del concorso letterario “Misteri d’Italia” promosso dall’associazione Nati per Scrivere, è un noir denso di mistero, di segreti, di cose da sussurrare a mezza voce. Parla del potere della corruzione e di quando l’animo umano possa rendersi lercio. Parla anche di Sardegna, la stessa che si respira tra le righe, e di una terra che abbraccia chiunque la senta nel cuore. Ah, e parla anche di donne, di donne forti per la precisione, che riescono a barcamenarsi, con astuzia, in ambienti dove ancora c’è una prevalenza maschile.

Impossibile non innamorarsi dell’ispettrice Marcialis, con il suo portamento fiero e quella forza che la contraddistingue – e anche, perché no, della sua lingua biforcuta.

Impossibile, altresì, non provare pena – si può? – per la Fenudi, che fredda e calcolatrice, è figlia di un meccanismo sbagliato.

Abbiamo, nel libro, due storie parallele, due delitti separati solo dal tempo. Abbiamo il Cinquecento, con il monaco Itochor accusato di un terribile assassinio. E abbiamo i giorni nostri, con la morte di un noto imprenditore locale. E sarà proprio il compito di Marcialis quello di guardare sotto il tappeto di alcune persone.

«La passione per la scrittura è nata nel momento in cui ho imparato a usare carta e penna, credo» racconta la Delrio. «Forse anche prima, perché fin da piccolissima amavo inventare storie, le raccontavo ai miei fratelli e ai miei cugini. Ricordo una volta, sarò stata in terza elementare, mi ero incaponita nel voler scrivere un romanzo di pirati. Avevo riempito un quadernetto a righe, non so che fine abbia fatto. Crescendo, ho accantonato questa passione, in parte perché non mi sentivo all’altezza, ma anche perché troppo presa da altre situazioni che mi riempivano la vita e non mi lasciavano spazio per altro. A trent’anni, la svolta.»

Alla Delrio viene in mente, dal nulla, una storia e sente il bisogno impellente di scriverla, di metterla nero su bianco. E non solo: in poche settimane la termina, dedicandoci ogni momento libero.

«In realtà non so bene cosa rappresenti davvero per me la scrittura» continua. «A seconda dei periodi cambia connotazione, se sono felice è il frutto dell’energia positiva in eccedenza, se sono triste un balsamo per l’anima, se sono arrabbiata riesco a sfogare attraverso di essa la frustrazione. Quando ho cominciato, credo abbia rappresentato una cura. E una rinascita. Non riesco a pensare alla me prima dei trent’anni, perché non mi riconosco. E non so come abbia fatto a comprimere il mio estro creativo per così tanto tempo senza implodere.»

Poi, si butta sui racconti, per perfezionarsi. E vince molti premi: la sua penna arriva, eccome se arriva. E poi l’ispirazione la riporta a una storia più lunga, la sua ultima fatica letteraria.

«L’ambientazione è stata la parte più semplice» spiega, quando il discorso si sposta sulla sua città, teatro del suo thriller. «Da poco, parlando con un altro scrittore decisamente più ferrato di me sia in materia di thriller che di scrittura in generale, abbiamo concordato sul fatto che descrivere posti e scorci di società realmente “vissuti”, sia un valore aggiunto, perché il lettore percepisce tangibili le emozioni provate dallo scrittore e si riconosce in esse. E credo che anche nel mio caso, traspaia prepotentemente l’amore per la mia terra e il mio paese, tanto che chi legge ci vede un po’ di sé, o accusa “il mal di Sardegna”, la profonda nostalgia che solo chi ha visitato la Sardegna almeno una volta nella vita può provare.»

Ma, come è stato detto, due sono le storie che si dipanano parallelamente nella narrazione, uguali di pathos sebbene così distanti.

«Il libro è nato partendo proprio dalla parte “storica”. Sono sempre stata molto curiosa per quel che riguarda le leggende locali, il folklore e la tradizione. Pur non essendo tortoliese di nascita, e forse proprio per questo, da quando vivo qui non ho mai perso l’occasione per documentarmi sul paese e sulle sue storie, in particolare attraverso i racconti degli anziani» chiarisce, energica. «Quella del teatro San Francesco e dei suoi fantasmi credo sia stata una delle prime leggende di cui sono venuta a conoscenza. Perciò, quando mi sono imbattuta nell’articolo di Vistanet che trattava appunto questo tema e che confrontava la fantasia con i fatti storici, è scoccata la scintilla. Avevo “necessità” di una maledizione che nascesse nel passato, tanto potente da “deviare” il presente nella direzione che io volevo far prendere agli eventi, e quale espediente migliore se non l’anatema lanciato addirittura da un gruppo di monaci? In realtà, nel libro, frate Ithocor e i suoi ergono il monastero circa 200 anni prima, rispetto ai fatti realmente accaduti, quindi in epoca giudicare.  Il monastero in realtà nacque nel 1721, e fu chiuso per ordine Regio nel 1766, convertito successivamente a usi civili. La leggenda narra appunto che questi frati furono accusati di fatti gravissimi, come lo stupro e l’omicidio di una giovinetta, oltre all’occultamento del cadavere. E in effetti la sua chiusura improvvisa dopo un operato così breve lascia spazio a parecchie congetture.»

Uscito da appena un mese, “Gli impiccati non muoiono subito” ha avuto una grande accoglienza.

«C’è chi mi ha ringraziato per aver descritto Tortolì e l’assoluta bellezza dei suoi paesaggi, chi si è rivisto in alcune scene e si è addirittura emozionato per certi scambi di battute, come ad esempio l’augurio della madre a Claudia Marcialis, l’ispettrice. “Bai cun Deus, figgia stimara”. Insomma, oltre alla dimensione del giallo, il fatto che fosse ambientato proprio qui e che toccasse anche tematiche non propriamente da thriller, ha incuriosito anche i non amanti del genere.»

Ahimè, nel thriller della Delrio si toccano anche punti delicati, si parla infatti anche del versante marcio della società.

«Non mi è mai passato per la mente di venire attaccata per questo. Sono convinta che chi ama davvero il proprio paese debba anche essere sempre consapevole dei suoi lati oscuri, e non solo dei punti di forza. Soprattutto perché conoscere i difetti di un luogo è il primo passo per poterli migliorare. E anche solo parlarne, sollevare il problema, può fare la differenza. Nello specifico, uno tra tutti, parlo dei problemi legati alla mancanza di lavoro e al lavoro stagionale sottopagato, una piaga di non poco conto per una località che vive soprattutto di turismo. Oltre alla inevitabile guerra tra poveri nei confronti della manodopera estera. C’è da dire che queste situazioni non sono peculiari solo della nostra zona, ma dell’Italia intera. In campo strettamente legato alla stesura del libro, poi, devo ammettere che i tumulti fra i lavoratori potevano rappresentare un capro espiatorio perfetto su cui far vertere un’indagine, era un’idea troppo allettante per lasciarla andare. C’è anche un’altra questione, che per me è importante, e che riprende un concetto che ti ho accennato sopra, e che riguarda il valore aggiunto, che secondo me può fare la differenza, tra un libro dove il lettore non vede l’ora di scoprire l’assassino, e uno in cui l’indagine è sì importante, ma non è tutto. E il genere giallo, se vissuto in quest’ottica, dà al lettore l’opportunità di scavare fino alle origini del “male”, che sia esso scaturito da un fenomeno culturale, psicologico, sociale, individuale o di un gruppo di persone.»

E intanto, come lei stessa confida, è in fermento: «Per il momento, ho un romanzo a metà e sto aspettando di avere il tempo necessario per riprendere le fila e metterci un punto, ma ho una figlia piccola che ha l’argento vivo addosso e non è facile conciliare le sue esigenze con le mie. E infine c’è il primo romanzo che ho scritto, a cui tengo particolarmente, che vorrei vedere pubblicato quanto prima (sarebbe già dovuto uscire nel 2022 ma la casa editrice ha chiuso, perciò ora è al vaglio di altri editori). Ovviamente, anche quello è ambientato in Ogliastra. Magari questo è l’anno buono.»

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

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Ospite del podcast diretto da Fedez e Luis Sal “Muschio Selvaggio” (che parla di cultura e società con, in ogni puntata, un ospite diverso), lo scrittore Saviano ha parlato, dopo due ore dedicate a Cosa Nostra, anche di criminalità sarda e di Attilio Cubeddu, latitante da quasi trent’anni.

“C’è poi la storia del latitante sardo ricercato dell’Anonima” dice Saviano “che credo abbia partecipato, insieme a Matteo Boe, al sequestro di Farouk (intendendo Farouk Kassam, rapito a 7 anni nel ’92). Credo si chiami Cubeddu” continua. “Quella è una storia su cui ho messo tempo fa gli occhi perché sono sicuro, ma è una sicurezza romantica, che lui sia riuscito a scappare in Australia e ora faccia il pastore lì. È uno di quelli che ha deciso cosa fare.”

Parlando dell’Anonima, Saviano rimarca il fatto che i sequestri non venissero fatti per arricchìrsi, bensì per “non avere padroni” e per investire in attività proprie.

“Ora le stagioni dei sequestri sono dimenticate, veramente quella potrebbe essere un’altra puntata, le sto studiando da tanti anni” conclude poi, facendo qualche appunto sulla lunga latitanza, a casa sua, di Matteo Messina Denaro.

Alla fine del video, il riferimento a Cubeddu.

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

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«La prima volta che ho tatuato è stata nel febbraio del 2016 mentre ero a Londra. Era anche la prima volta che prendevo una macchinetta in mano e per me è stato tutto molto naturale. L’ho da subito vista come una matita, anche se ero piuttosto preoccupata: sapevo benissimo che la pelle non si comporta come un foglio di carta. In ogni caso è stato amore a prima vista.»

Il suo tratto è fine e i suoi lavori raffinati, delicati, quasi lievi: la tatuatrice 27enne di Santa Maria Anna Foddis è conosciuta proprio per questo tratto distintivo, particolare, che rende ogni suo tatuaggio riconoscibile. «Mi sono specializzata in questo stile,» racconta «anche perché mi sembrava congeniale alle mie abilità.»

Piccoli animali, busti, fiori, figure di donna, scritte, scene di vita quotidiana: non importa cosa le venga chiesto, la Foddis riesce a trasformare qualunque disegno in qualcosa di quasi prezioso, leggero, imprimendolo su pelle e non su carta e lasciando quindi un segno indelebile di questa sua grande passione. E quando qualcuno le chiede qualcosa di eccessivamente distante dal suo modo, be’, la Foddis non si mette problemi a consigliare un altro professionista: ognuno, del resto, ha il suo tratto e dipende dai gusti.

«Vedo tutto questo come il lavoro della mia vita» chiarisce, specificando che è la chiamata di Andrea Tosciri, anch’esso tatuatore, a cambiare le carte in tavola. La Foddis si appoggia al suo studio per lavorare.

«Forse il mio lavoro più bello è una libellula tatuata sulla spalla di una ragazza,» racconta «sia perché mi sono messa alla prova su di una superficie abbastanza piccola sia perché sono riuscita a trasmettere al meglio quella leggerezza che accompagna i miei lavori.»

Sì, ma come si diventa tatuatori? Viene da chiedersi quali siano le qualità che servono per fare un mestiere così particolare, così… indelebile. Okay, ci sono le qualifiche, ma non solo, come chiarifica la baunese.

«Servono soprattutto passione, tanta manualità e un pizzico di vena artistica» racconta. «La creatività è forse la cosa più importante perché ci permette di essere originali e l’originalità è l’aspetto che più viene richiesto in questo settore.»

Certo, oggigiorno è facilissimo coprire un tatuaggio, ma il sapere che una persona porta addosso un pezzo della tua arte è sicuramente un’emozione fortissima: «Credo comunque che sia appagante pensare che molte persone portino o abbiano portato con sé per molto tempo una parte del mio lavoro: i tatuaggi servono spesso a trasmettere un messaggio e io in un certo senso ho contribuito a portarlo a destinazione.»

Ma cosa sono i tatuaggi per lei che li crea, li disegna, li imprime?

«Ho sempre visto i tatuaggi come degli accessori che ognuno può usare a suo piacimento» commenta. «Certi si tatuano un disegno che per loro è irrinunciabile, altri cercano di trovare l’immagine più precisa per ciò che vogliono dire e altri ancora vogliono semplicemente intendono usare un tatuaggio per ricordarsi e fissare per sempre la fase della vita che stanno vivendo. Secondo me ognuna di queste scelte è di pari valore. Questo discorso si potrebbe allargare al modo con cui vengono recepiti i tatuaggi in generale: ormai i tatuaggi non vengono più visti ostilmente e dunque anche la figura del tatuatore è ormai vista come quella di un artista a tutti gli effetti.»

Le sue vetrine? I social. Lì, foto su foto. Parlano di una passione, del futuro, del presente. E di un sogno: quello di vivere con una macchinetta in mano.

«I social sono a parer mio il modo più diretto e veloce per espandersi in questo campo» conclude. «Da quando ho iniziato a pubblicare i miei lavori, la mia clientela è cresciuta, questo senza dubbio. Al giorno d’oggi un tatuatore privo di social potrebbe anche essere guardato con diffidenza, anche se avere uno spazio pubblico virtuale porta anche le sue problematiche.»

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

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BodyPart (3)Non si può parlare di Arbatax senza che qualcuno ricordi la simpatia contagiosa e lo spirito imprenditoriale di Efisino Comida, per decenni alla guida del locale La Capannina, il ristorante-pizzeria che per moltissimo tempo è stato il punto di ritrovo preferito dagli ogliastrini e la meta di tantissimi turisti.

Scomparso nell’ottobre del 2019, riproponiamo l’intervista che ci rilasciò qualche anno fa.

L’avventura di Efisino e della moglie Elvira alla Capannina iniziò nel 1972. Nella spiaggia di Ponente costruirono un piccolo casotto di legno che nel giro di poco tempo divenne un vero e proprio ombelico del mondo, tant’è che la spiaggia prese il nome del locale, appellativo che detiene ancora oggi. Il segreto del successo? I piatti squisiti a base di pesce fresco cucinati da Elvira e la simpatia di Efisino, vero e proprio ristoratore-showman. Scalzo, con collane di conchiglie e peperoncini al collo, con bracciali e monili di ogni sorta, singolari copricapi e camicioni sgargianti, Efisino conquistava tutti con la battuta pronta e un modo di fare diretto e brillante che conserva ancora oggi ad 83 anni. “Mi piaceva stare in mezzo alla gente e regalare a tutti una risata” racconta Efisino.

“A 17 anni iniziai a lavorare come pescatore e a cucinare per i miei compagni sulla barca. Mi riuscivano bene entrambe le cose e anni dopo, con mia moglie, decisi di mettere in campo queste abilità, prima aprendo dei bar in centro, che si rivelarono delle vere e proprie botteghe d’avanguardia, e poi con la Capannina. Nel giro di poco tempo il nostro piccolo locale divenne un punto di riferimento per tutti, residenti e turisti. Abbiamo cambiato il modo di mangiare dei tortoliesi, ancora poco avvezzi al consumo del pesce. Sono ancora impressi nel palato di tutti la nostra zuppa di pesce, il risotto alla pescatora di Elvira, le seppioline impanate che inventai io e tutti i piatti del menù che preparavamo per i nostri ospiti”. Ma il pesce fresco non era la sola attrattiva. Tutti si precipitavano al ristorante per “conoscere Efisio” la cui fama sempre lo precedeva in quegli anni. “Mi hanno detto che molto spesso nei villaggi turistici, i vacanzieri, appena arrivati, chiedevano come potessero fare a prenotare una cena da me. Volevano conoscere l’eccentrico ristoratore-pescatore. Abbiamo accolto nel nostro locale migliaia di turisti”.

Nel giro di qualche anno la qualità del cibo e la singolarità del servizio regalarono al locale un’incredibile fama, attirando presso il ristorante anche personalità di grande rilievo del mondo della politica, dello sport e dello spettacolo. Tra gli ospiti di Efisino ed Elvira si annoverano personalità di spicco come Lucio Dalla, Francesco Cossiga, Gigi Riva, la squadra dell’allora Cagliari Calcio, Mario Melis, Benito Urgo, Enzo Iacchetti e tanti altri.

Il locale, da piccolo casotto di legno, si ingrandì, arrivando ad ospitare per feste e matrimoni anche 600 persone. La Capannina per molto tempo diede lustro al territorio e mosse le fila del turismo, tant’è che l’allora sindaco Virgilio Nonnis, dopo un pranzo luculliano, lasciò un biglietto ad Efisio ed Elvira: “Le pietanze consumate nel vostro locale hanno superato ogni mia immaginazione. Efisio, complimenti vivissimi. Da scolaro vivace sei divenuto un grande ristoratore, riuscendo a creare un locale che fa onore al nostro paese”. L’atmosfera restò però quella di sempre, semplice e allegra, nonostante il ristorante fosse divenuto un luogo “alla moda”. Per “Zio” Efisino ogni occasione era buona per regalare allegria e inventare iniziative che coinvolgessero la cittadinanza. In questo si è rivelato un vero e proprio pioniere, un moderno innovatore. Con lui, il paese iniziò a festeggiare Stella Maris, il Carnevale e la Festa della donne. Balli di gruppo, vetrine commerciali create ad arte, fuochi d’artificio e sfilate di carri fecero la loro prima comparsa a Tortolì proprio grazie alla sua inarrestabile inventiva, a quel “vedere lontano” che lo ha caratterizzato e reso uno dei principali fautori della storia di Tortolì-Arbatax.

Sulla chiusura del locale che lo ha reso indimenticabile per tutti, sostiene con amarezza e un velo di malinconia: “Non sono mai riuscito a capire fino in fondo cosa sia successo. La Capannina è stata chiusa da un giorno all’altro ed io sono stato chiamato dal procuratore una sola volta. La pratica dopo tanto tempo è stata archiviata ed io non ho mai avuto la possibilità di dire la mia, di difendere il duro lavoro di una vita”.

Efisino rimpiange i tempi in cui Arbatax era vivace e al centro di ogni iniziativa: “I giovani in particolare dovrebbero avere la stessa sfrontatezza che ho avuto io alla loro età, quando senza soldi e senza istruzione ho deciso di far avverare i miei sogni mettendo in campo buona volontà, idee nuove e determinazione”.

L’articolo Personaggi di Arbatax. La storia di Zio Efisino Comida e della sua Capannina proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

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Tra gli artisti sardi che hanno calcato il palco della finale di Sanremo c’è anche Maria Grazia Impero.

La giovane di Calangianus partecipò al Festival nel 1993, l’”epoca d’oro” della kermesse, con la conduzione di Pippo Baudo e Lorella Cuccarini.

La canzone “Tu con la mia amica”, scritta da Enrico Riccardi, era un brano del 1974 originariamente destinato a Loredana Berté e poi riadattato ad hoc per la giovanissima rocker calangianese. Non stupisce questa assonanza vista la cifra “graffiante” del brano.

Nella sezione “giovani” di cui faceva parte la Impero figurava anche una allora agli esordi Laura Pausini con un brano che poi passerà alla storia: “La solitudine”. Fu ovviamente la futura icona mondiale della canzone italiana a trionfare, Maria Grazia Impero si fermò alla prima fase.

Ecco il brano eseguito sul palco dell’Ariston.

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

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Nel XVIII secolo a Tortolì, vicino alla chiesa di San Lussorio, fu ritrovato da un contadino un diploma militare su lamine di bronzo tenute insieme da una cucitura di cuoio, datato 13 settembre 134 d.C.

La caratteristica principale di questo prezioso reperto risalente agli anni in cui a Roma era imperatore Adriano, sta nel fatto che non è assegnato ad una sola persona, ma a due classiarii della flotta del Miseno: a Decimus Numitorius Tarammon e al figlio Tarpalaris.

Il primo, lo si capisce dal testo, era un militare di origine sarda che, dopo aver prestato servizio per 25 anni presso la marina militare romana, fu congedato con onore, ottenendo i privilegi della cittadinanza e dello ius conubii. Si può ipotizzare che il veterano abbia deciso di ritornare, dopo il congedo, nel luogo d’origine, forse proprio Tortolì, dove è stato ritrovato il suo “diploma”.

Sulla lamina di bronzo è riportato tutto il testo del congedo e i nomi dei sette testimoni. Il reperto si trova oggi al Museo Nazionale di Torino.

Altri congedi, scritti sul bronzo, sono stati rinvenuti anche a Ilbono. Di quello rilasciato dall’imperatore Tito nel 79-81 d.C., ne resta solo un piccolissimo frammento. Il secondo, rilasciato dall’imperatore Adriano, apparteneva invece  a un marinaio che militò nella flotta pretoria ravennate.

L’articolo Lo sapevate? A San Lussorio venne trovato un diploma militare appartenuto a Numitorio Tarammone, cittadino romano di Tortolì proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

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L’imprenditrice digitale Chiara Ferragni, che domani debutterà sul palco dell’Ariston, ha lanciato dai suoi seguitissimi social una frecciata alla ex velina sarda Elisabetta Canalis, pubblicando una storia dove con sguardo sornione dice “La mia Liguria”.

Chiarissima per tutta la frecciata nei confronti della showgirl, che lo scorso anno aveva scatenato un putiferio accettando un ricco compenso per essere la testimonial della Regione Liguria, sia perché Elisabetta Canalis è sardissima, sia perché aveva girato il suo contributo con alle spalle i grattacieli di Los Angeles, dove vive per la maggior parte dell’anno insieme a marito e figlia.

Sui social, inutile dirlo, è già polemica. Sanremo non è ancora iniziato, ma Chiara Ferragni sa come tenere acceso l’interesse.

L’articolo Chiara Ferragni e la frecciata a Elisabetta Canalis: Sanremo ancora non è iniziato e già scattano le polemiche proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

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Il villaggio nuragico di Ruinas è situato a quota 1.197 s.l.m. nel massiccio del Gennargentu nell’attuale territorio comunale di  Arzana. Risulta essere uno dei più alti della Sardegna. Fu individuato da Orazio Ferreli nel 1950, per la tesi di laurea in archeologia.

Il villaggio Ruinas si sviluppa intorno al maestoso nuraghe omonimo, che domina le oltre duecento capanne a pianta circolare, di cui attualmente sono rimaste le basi in pietra.

Questo antico insediamento umano antichissimo si dice fosse abitato fino al Medioevo,la tradizione orale racconta sia stato abbandonato a causa di una drammatica pestilenza intorno al 1300 che aveva decimato la popolazione.

I sopravvissuti furono accolti ad Arzana e si stabilirono nella parte estrema della periferia dell’abitato nella parte alta di “Preda ‘e Maore”. Il Comune di Arzana così ereditò le terre di Ruinas.

Visti i resti dell’antico villaggio nuragico, doveva essere un grosso centro provvisto di fontane e pozzi, dove ancora oggi l’acqua sgorga in vari punti dal terreno.

La tradizione descrive gli abitanti dalla carnagione molto chiara, con gli occhi azzurri e i capelli biondi o rossicci, dal carattere fiero e ribelle.

Molti dei sopravvissuti in seguito, da Arzana si spostarono in alcuni paesi confinanti, continuando a praticare soprattutto la pastorizia, la principale attività produttiva dell’antica Ruinas.

Alcuni cognomi sardi vengono fatti risalire all’antico villaggio nuragico del Gennargentu.

L’articolo Secondo la tradizione il villaggio dell’ultima popolazione nuragica fu abitato fino al XIV secolo proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

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