In passato i giochi dei bambini erano fortemente legate alla tradizione della Sardegna e in alcuni casi avevano significati simbolici.

In Ogliastra, tra questi possiamo annoverare un’attività ludica praticata dai giovanissimi denominata “giogai a celu e inferru” – giocare a cielo e inferno -.

Si praticava in gruppo e aveva inizio quando due bambini, in disparte dagli altri, decidevano di rappresentare uno il paradiso e l’altro l’inferno. Uno dunque “indossava” le vesti dell’angelo e l’altro del diavolo, inoltre allo stesso tempo ciascuno di questi sceglieva se corrispondere ad un determinato colore (ad esempio: asulu – azzurro – o orùbiu – rosso -), ad un fiore (es: orròsa – rosa – e gravellu – garofano), un animale (es: aquila – àbila- o corvo – crobu), un oggetto o altre categorie ancora.

A questo punto i due “capi” del gioco si mettevano uno di fronte all’altro, tenendosi per mano con le braccia alzate. Sotto di questo arco gli altri bambini passavano in fila indiana, fino a che colui che chiudeva il gruppo veniva fermato con le braccia che si abbassavano dei due promotori dell’attività. A questo veniva chiesto quale dei due simboli preferiva, tra quelli decisi in precedenza – ad esempio asulu o orùbiu -, e in base alla scelta doveva disporsi dalla parte di colui al quale corrispondeva la riposta scelta.

Così di volta la fila diventava sempre più corta, per poi esaurirsi, fino a creare due diversi gruppi capeggiati dai due bambini promotori iniziali del gioco. Solo allora veniva svelato agli altri a quale gruppo si apparteneva.

Dunque le due “fazioni” iniziavano a schernirsi con varie formule in lingua sarda, vantandosi di appartenere al paradiso o all’inferno e viceversa.

Alla base di questo gioco c’è il forte valore simbolico della lotta tra il bene e il male, e le sue origini si perderebbero nella notte dei tempi. Mentre l’arco formato dalle braccia dei due bambini, rappresenterebbe un passaggio cruciale del percorso delle anime nella vita ultraterrena.

 

 

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Fonte: Ogliastra News Mario Marcis

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Sono i modi di dire sardi che non passano mai di moda.

Nella nostra tradizione le espressioni di saggezza popolare pungono con precisione, quando necessario, e racchiudono in poche battute esperienze di vita vissuta.

Diffusi in tutta l’Isola, is “dicius” continuano ancora oggi, in piena modernità ad essere sempre fonte di consiglio e di rimprovero. Oppure, come in questo caso, di scarcasmo.

Come l’immortale “giai ses a frori”, viva espressione che gioca sull’antitesi presente nel parlato sardo, non invecchia mai il detto “Non ses bonu mancu pro èssere fùndiu a Santu Èngiu”, anche se coniato in epoca moderna. Letteralmente “Non sei buono neanche per essere fuso a San Gavino”, con allusione alla storica fonderia di piombo e zinco della cittadina del Medio Campidanu.

Un oggetto rotto, impossibile da aggiustare, viene buttato via. Allo stesso modo, con spirito provocatorio quasi “crudele”, la tradizione popolare punge ogni persona considerata inetta.

L’articolo Insultare ma con classe: da dove deriva l’espressione “Non ses bonu mancu pro èssere fùndiu a Santu Èngiu”? proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Maria Luisa Porcella Ciusa

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I fari da sempre sono avvolti da un’aura di mistero e fascino. Sono le silenziose e possenti sentinelle del mare, testimoni della storia e dei viaggi incessanti dell’uomo.

La Sardegna ne conta tantissimi, ben 33, disposti lungo tutto il perimetro costiero dell’Isola. Alcuni sono famosi per la loro bellezza e per la loro particolarità. Ogni faro ha la sua storia da raccontare.

Un tempo erano abitati dai guardiani, che vivevano al loro interno e li curavano insieme alle loro famiglie. Oggi, invece, i fari sono quasi tutti automatizzati e il guardiano si limita a sorvegliare i sistemi e a intervenire in caso di malfunzionamento.

PH farocapospartivento.com

 

Il faro sardo più antico è quello di Capo Testa, in uso dal 1845, a pochi chilometri da Santa Teresa di Gallura. Dal faro è possibile vedere la Corsica e le isole dell’Arcipelago di La Maddalena perchè si affaccia, con la sua maestosità, sulle Bocche di Bonifacio.

Altro faro di lunga data è quello di Capo Spartivento a Teulada. Venne costruito nel 1866 e si trova ancora in funzione, rivestito dalla gabbia di Faraday. Si raggiunge dalla spiaggia della Baia di Chia tramite una strada sterrata di quattro chilometri. Una curiosità? La struttura sottostante è stata oggetto di un restauro e adibita a una Luxury Guesthouse.

Il faro di Capo Caccia, invece, è quello più alto di tutta l’Isola e si trova nel territorio di Alghero, vicinissimo alle celebri Grotte di Nettuno. La struttura è molto imponente e su di essa  svetta una torre di circa 24 metri che sommati all’altezza della scogliera porta l’altezza totale del faro a 186 metri sul livello del mare e che fa di Capo Caccia il faro più alto di tutta la Sardegna.

Capo Caccia, ph Ilmondodeifari.com

 

Tra i più importanti dell’Isola ricordiamo poi il faro di Capo Ferro a ovest di Porto Cervo, il faro di Capo Carbonara vicino a Villasimius, il faro di Capo San Marco nel Sinis, il faro Mangiabarche a Calasetta, il faro di Capo Bellavista ad Arbatax, il faro di Capo Sandalo a Carloforte, il faro di Punta Scorno all’Asinara, il faro di Punta Sardegna a Palau,

 

 

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

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Prima il caldo anomalo, poi un brusco ritorno del freddo in questo avvio di primavera in Sardegna: le temperature si sono abbassate sensibilmente e nel Nuorese sono riapparsi anche i fiocchi bianchi misti a pioggia.

Ma non solo nel Nuorese: anche dall’Ogliastra arrivano i primi scatti che mostrano la neve nei centri montani.

Francesca Rita Mulas, ad esempio, ci manda una foto della situazione ad Arzana poche ore fa, precisamente dal punto di vedetta San Michele.

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Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

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Arriva aprile e torna l’inverno. Per la prima domenica del nuovo mese è prevista pioggia, vento e abbassamento delle temperature.

Cielo nuvoloso, con precipitazioni localmente moderate, anche a carattere di rovescio o temporale, con temperature in lieve o moderato calo, fino a sensibile sul settore sud-occidentale. Venti di maestrale e mari mossi e agitati.

Le previsioni dicono che il tempo sarà variabile tendente al brutto per tutta la prima decade del mese.

 

 

 

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Fonte: Ogliastra News Maria Luisa Porcella Ciusa

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Sono passati tanti anni da quando la macchina della solidarietà della Sardegna ha avviato una collaborazione speciale e preziosa per tante persone: quella con un Paese, la Bielorussia, colpito duramente da uno dei capitoli più tragici della storia mondiale dell’ultimo ventennio del 900.

Chernobyl si trova in Ucraina, ma l’area bielorussa confinante è stata altamente contaminata dalle radiazioni dovute alla potentissima esplosione avvenuta il 26 aprile 1986 nella centrale nucleare.

Obiettivo della sinergia tra i due Paesi, quello di dare ospitalità ai bambini che dopo il disastro nucleare di Chernobyl hanno avuto o hanno bisogno di un luogo in cui potersi purificare dalle scorie radioattive.

Ancora oggi, infatti, metalli pesanti come il cadmio continuano ad essere presenti nelle zone limitrofe all’Ucraina e danneggiano gravemente la salute degli abitanti di quei luoghi.

Ecco perché la Sardegna, con la sua aria pulita, il mare e il clima quasi sempre mite, è per i bambini bielorussi un luogo ideale per fare il pieno di salute.L’associazione che si occupa dei trasferimenti è la “Cittadini nel mondo Onlus” che ha sede a Cagliari. Ogni anno circa 300 bambini bielorussi atterrano all’aeroporto di Elmas per incontrare le famiglie ospitanti.

Sono tante le storie, di amore e solidarietà, che hanno caratterizzato questi anni di sinergia tra popoli. I bambini infatti, vengono ospitati da delle famiglie sarde di solito per un mese durante l’estate.

Una di queste storie, è quella di Dima, che viene dalla capitale della Bielorussia, Minsk. Una famiglia di Loceri, lo ospita ogni anno: Rosella Lai, Carmine Mulas e la loro figlia Paola da ormai anni gli offrono una casa e Dima è diventato parte integrante della loro famiglia.

«Abbiamo deciso di aderire al Progetto Chernobyl durante una giornata d’estate in spiaggia, dopo aver letto un articolo in un giornale che ne parlava. E’ stato come un flash, un’ispirazione. Ho chiamato l’associazione e a febbraio dell’anno successivo abbiamo fatto partire le pratiche di accoglienza. La prima volta che abbiamo incontrato Dima all’aeroporto – racconta Rosella  – è apparso davanti a noi un bambino di otto anni, timido, piccolo, magrolino, con un cappellino sulla testa. I suoi occhi erano sbarrati per l’emozione. Appena gli hanno detto che noi eravamo la sua famiglia affidataria ha preso per mano me e mio marito e siamo andati via così. In quel momento era lui che stava dando coraggio a noi. Inizialmente l’unica parola che sapeva dire in italiano era “grazie” ed era una parola che ripeteva in continuazione. L’unica grande difficoltà che abbiamo avuto all’inizio era la lingua perché allora noi non disponevano di traduttori».

Rosella, Carmine e Paola sono rimasti così colpiti dall’esperienza, che continuano a ospitare Dima ogni anno. Il legame che si è instaurato tra loro ormai è forte e rimarrà per sempre, anche se questa esperienza un giorno dovesse finire. «Siamo stati fortunati – spiega Rosella- Dima è un bambino intelligente, con grande spirito di adattamento. Noi lo amiamo, non è solo lui che vuole venire da noi, ma siamo noi stessi ad aspettare ogni anno il suo arrivo».

Per la famiglia originaria di Dima però, non è stato semplice mandare il loro bambino in una terra lontana, con una cultura completamente diversa. «La prima volta che Dima è partito eravamo certamente agitati –  racconta la sua mamma, Helena – Abbiamo letto e visto immagini della Sardegna , e abbiamo capito che è un’isola fantastica. Lo abbiamo fatto partire inizialmente per migliorare la sua salute. Siamo molto grati a Rosella e Carmine per la cura che hanno riservato al nostro piccolo».

Dima ogni anno frequenta la colonia estiva dei salesiani di Lanusei a Cea, dove ha avuto modo di fare amicizie, di conoscere i suoi giovani coetanei ma anche di imparare bene la lingua italiana. 

«Mi piace molto la Sardegna – riflette il piccolo tra sorrisi e gesti nel tentativo di farsi capire  – Il mare, il sole e gli amici sono la cosa più bella. Il Bielorussia non c’è tanto sole, e non c’è il mare. In Italia poi sono tutti belli e bravi – dice scherzando  – Sono partito la prima volta per problemi di salute, ma adesso voglio tornare per Rosella, Carmine, Paola e per tutti i miei amici».

Quella di Dima è solo una delle tante storie che hanno costellato questi anni. Sono il simbolo di una Sardegna diversa, di una Sardegna migliore, che conosce il valore dell’ospitalità.

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Fonte: Ogliastra News Maria Luisa Porcella Ciusa

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La Villa, che si trova in centro a Olbia, oggi sede dell’Istituto paritario San Vincenzo de’ Paoli, fu progettata negli anni Venti dall’ingegnere Bruno Cipelli per volere della famiglia Colonna, originaria dell’isola di Ponza.

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 Villa Clorinda – Olbia 8  


L’edificio si sviluppa su due piani con un livello aggiunto in seguito, sormontato da una torretta belvedere. Il portone d’ingresso, incorniciato da semicolonne con capitello corinzio e caratterizzato dallo stemma gentilizio, è anticipato da un pronao retto da quattro colonne in granito grigio e da una piccola scalinata, protetta dalle sculture di due leoni. I motivi floreali, la lira, i volti femminili e maschili, le cornici, le sovracornici e le finte lesene pensili in stucco bianchissimo ornano l’intero edificio.

La particolarità di Villa Clorinda consiste proprio nella coesistenza di elementi di stile neogotico d’ispirazione medioevale e lo stile Liberty.

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Fonte: Ogliastra News Maria Luisa Porcella Ciusa

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Si è iniziato a parlare correttamente e diffusamente soltanto negli ultimi anni di endometriosi, una patologia cronica che si stima interessi circa il 10% della popolazione femminile. L’endometriosi è una patologia invalidante, responsabile di una serie di disturbi che possono compromettere seriamente, nei casi più gravi, la qualità della vita di una donna. A questo si aggiungono anche i problemi legati alla fertilità che l’endometriosi può comportare.

Oggi ne parliamo con Sara Depau, impiegata 49enne tortoliese, che fin da ragazzina fa i conti, quotidianamente, con questa malattia. 

A quale età ti è stata riscontrata l’endometriosi? Quanto tempo è trascorso tra primi sintomi e diagnosi?

Avevo compiuto 28 anni da pochi giorni, quindi nell’ottobre del 1999. Soffrivo da tanto tempo, ma i dolori erano cambiati nell’estate del 99. Dolori forti all’addome, che si diffondevano, si irradiavano. La diagnosi è stata data da una giovane dottoressa presso l’ambulatorio della guardia medica.

Quali sono stati i sintomi iniziali della tua endometriosi e come si sono evoluti?

Avendo sofferto sempre durante il periodo delle mestruazioni, avevo forti dolori all’addome e alle gambe. Era un’alternanza di fitte e dolore intenso pulsante come dopo un forte trauma, un colpo o una caduta. Quando i dolori sono cambiati, è tutto peggiorato, i dolori precedevano le mestruazioni, che già duravano almeno 6 giorni, e continuavano dopo la fine del flusso. Quindi in 28 giorni in cui si completa il ciclo della donna io soffrivo come minimo 10 giorni. Più in là ho iniziato a soffrire anche durante il periodo dell’ovulazione. Fino a che erano più i giorni in cui stavo male che i giorni di “normalità”.

Negli anni ti sono state fatte diagnosi errate?

Precedentemente alla diagnosi, negli anni dell’università a Roma ( Sara studiava architettura, ndr) ero seguita da una dottoressa molto scrupolosa. Spesso non stavo bene e lei intuiva che si potesse trattare di cisti ma dalle ecografie non risultava niente. Poi quando i sintomi sono peggiorati il medico di famiglia sospettava si trattasse di Calcoli Renali.

Prima di soffrirne, eri a conoscenza di questa patologia?

No, nel 1999 non se ne parlava tanto. E la stessa dottoressa che mi seguiva a Roma non l’aveva mai nominata.

Nella tua famiglia ci sono altri casi? Esiste una predisposizione genetica?

Io sono stato il primo caso di diagnosi di endometriosi e con il senno di poi penso che prima di me altre abbiano sofferto di questa patologia senza che sia stata mai diagnosticata.

Hai subito interventi chirurgici? Se sì, quali? Ne hai tratto giovamento?

Ho subito due laparotomie, due inseminazioni di cui una in laparoscopia e la seconda con conseguente setticemia per complicanze. In seguito ho dovuto procedere con l’intervento demolitivo, isterectomia totale con coinvolgimento degli ureteri e conseguente resezione intestinale. Non ho mai avuto giovamento dagli interventi, i sintomi sono ricomparsi subito. La mia Endometriosi è stata diagnosticata immediatamente al 4° grado, il più grave.

In che modo la malattia ha inciso sulla tua vita?

Non è facile rispondere. Credo che abbia coinvolto e cambiato tutto, soprattutto i miei rapporti con il prossimo. All’inizio facevo visite ginecologiche e ecografie circa una volta la mese. Ho tenuto un file in Excel con il mio ciclo per anni, cercando di individuare (segnandoli) i giorni in cui il dolore era più forte. E’ una vita in cui cerchi di trovare un equilibrio a cui non ti puoi abituare perché tutto cambia di continuo, e quasi sempre in peggio. Mi sono ritrovata a rinunciare a pezzi di vita. La stanchezza cronica, i dolori fino alla disabilità. E così che si modifica nel tempo anche il modo di pensare. Prima se nella mia vita si proponevano delle opportunità ragionavo o d’istinto, se presa dall’entusiasmo in caso di cose piacevoli, o con più lungimiranza in caso si trattasse di situazioni da affrontare mio malgrado. Con il passare del tempo non ho più avuto scelta, se reagivo di istinto dovevo ritrattare e piano piano mi sono abituata a verificare sempre tempi e luoghi in cui mi chiedevano di andare. Sia che si trattasse di lavoro o di vita privata. La cosa più difficile e imbarazzante è stata cercare di spostarsi in posti dove potevo trovare bagni puliti e confortevoli, dare per anni spiegazioni sommarie a chi pretendeva di capire. Era faticoso anche solo pensarci. Ora parlo più chiaramente. Sono arrivata ad avere la necessità del bagno per 19 volte al giorno senza considerare le volte in cui mi devo alzare la notte. Una fatica fisica e psichica. E sono così precisa perché ho dovuto renderne conto ai medici quindi sono sicura di quel che dico. L’endometriosi mi ha tolto la libertà di movimento e di scelta. Non posso dimenticare che non ho potuto scegliere se diventare mamma. In quasi 20 anni ho avuto una piccola tregua tra il 2013 e 2014. Non mi sono fatta scappare la possibilità di realizzare un sogno.


Che terapie segui al momento? Quanto ti costano?

Al momento seguo una terapia per tenere sotto controllo il dolore. Faccio la fisioterapia al pavimento pelvico in privato. Alcune medicine sono passate dall’assistenza sanitaria altre no, direi che spendo circa 50€ al mese di medicine. Le visite le faccio quasi tutte a Negrar (VR) e sono a pagamento. Io ho l’esenzione ma riguarda poche visite e dovrebbero essere fatte con dottori differenti ogni volta e questa è una situazione che persone con la mia patologia non possono permettersi. Quindi, continuando così, con le visite di controllo, senza considerare il viaggio per arrivare a Negrar, spendo circa 250€ due volte all’anno. Per la fisioterapia spendo 50€ a seduta, inizialmente con frequenza settimanale poi mensile. 


L’endometriosi ha influito sulla tua vita personale e sociale? È stato difficile far capire la tua condizione a parenti, amici e colleghi?

Ho fatto i salti mortali per non offendere chi mi chiedeva partecipazione, chi mi coinvolgeva nella propria vita. Ho dato priorità al lavoro e alla famiglia stretta, per il resto facevo e faccio quello che posso. Credo sia difficile far capire quel che si vive in certe condizioni, credo che per quanto una persona ti voglia bene possa crederti, credere in quel che dici e avere comprensione per te ma capire è difficile. Trovo che le parole compassione ed empatia siano importantissime e bellissime. Molte volte ho sentito l’altro provare questo per me ma poi mi sono trovata a sentirmi fare le stesse domande più volte come se mai ne avessimo parlato. E così ho capito. Qualcuno può crederti e immaginare se in parte ha provato qualche cosa di simile. Capire è difficile! Certo è che ho potuto contare tanto su mia mamma e su una mia cugina per i ricoveri. Poi per l’ultimo intervento mio marito Luigi mi è stato di grande aiuto e conforto. Nell’ambiente di lavoro ho avuto diverse esperienze ma voglio ricordare la squadra di sostegno che ho avuto nel periodo in cui ho iniziato la terapia del dolore. Ho sentito tanto affetto intorno a me.

In Italia ci sono molte associazioni che si dedicano alle donne affette da questa patologia. Ti sei mai rivolta a loro? Come ti sei trovata? 

Mi sono rivolta a queste associazioni per avere informazioni quando ormai per era troppo tardi perché ormai avevo già avuto gravi danni. Ho avuto una brutta esperienza con un’associazione a livello regionale mentre ottime risposte dalle associazioni nazionali. A loro mi rivolgo per avere opuscoli da divulgare per far conoscere la malattia. Un gruppo su Facebook che mi ha particolarmente aiutata è questo: “Noi Endo Girl siamo forti”.

Descrivi l’endometriosi per te. 

E’ UN MOSTRO! E per mostro intendo qualcosa che mi fa paura, che mi fa male ma a cui non so dare forma. E’ una mia compagna perché, anche se ho eliminato quella parte di me che poteva far riformare la malattia, il mostro non mi ha lasciato e mi ha lasciato danni importantissimi.

Cosa vorresti dire/consigliare alle ragazze che si trovano a muovere oggi i primi passi in questa battaglia contro l’endometriosi? 

Mi piacerebbe parlare a tutti e non solo a chi soffre di Endometriosi. Vorrei parlare in maniera diversa a seconda delle età a cui mi rivolgo e vorrei dire che oggi abbiamo più possibilità di informazione e più capacità di movimento. Vorrei dire alle ragazze di non avere vergogna di parlare del loro dolore, ditelo ai genitori, al medico di base, ditelo alla prof. con cui vi sentite in confidenza. Parlate con le amiche e confrontatevi. Cercate sui social, ci sono dei gruppi chiusi in cui si trovano buone informazioni e tanto conforto. Vorrei che mi ascoltassero i genitori e che capiscano quanto è importante portare le figlie nei centri specializzati. Non sottovalutate il dolore, osservate lo sguardo: si riconosce.

Qualcosa che vorresti dire alle istituzioni? 

Parto con il grazie: a livello nazionale Grazie di aver riconosciuto la malattia invalidante; a livello locale Grazie di aver organizzato il reparto di terapia del dolore. Non è poco ma il più è da fare. Intanto bisogna informare e parlare dell’Endometriosi. Bisogna fare convegni e corsi, bisogna che le istituzioni costringano tutti i dottori al confronto. Non dimentichiamo che non esiste cura e non esiste protocollo. Quindi l’unica arma che abbiamo contro questa malattia è la parola: bisogna parlare e scrivere di Endometriosi. Speriamo nella ricerca. E allora GRAZIE anche a voi di Vistanet per questo importante spazio.

Hai partecipato di recente a Roma alla giornata mondiale dell’endometriosi. Perché? Quanto credi possano essere importanti queste manifestazioni? 

Da pochi anni in molte capitali si svolge la marcia delle donne affette di Endometriosi e credo che un desiderio comune sia quello di urlare. Urlare il dolore. Una caratteristica simile alle donne colpite di Endometriosi è che sorridono spesso. Sorridono perché cercano di non mostrare il dolore, e io non posso pensare che siano tutte persone sempre allegre.  Essendo una malattia che colpisce la parte più intima dell’essere umano, nel senso più interiore o ancestrale cioè la nostra capacità di proiettarci nel futuro, credo che soprattutto all’inizio non se ne voglia parlare per pudore, paura o vergogna, poi man mano che si prende consapevolezza si sente il diritto e la voglia di poter urlare. Quello che mi ha colpito durante la marcia è che tra le persone che fermavamo per dare informazioni gli uomini si attardassero con noi più delle donne. Credo che c’entrino ancora il pudore, la paura e la vergogna. Penso che le manifestazioni siano importantissime anche a livello sociale e che sia necessario che non venga frainteso il messaggio: la donna deve essere libera di poter essere mamma e per questo deve essere informata il prima possibile. Adesso abbiamo il mese e il giorno per sensibilizzare il mondo all’endometriosi: Marzo è il mese e 13 il giorno. E se qualcuno si domanda “Quale mondo?”,  la risposta è questa: il mondo delle donne pensanti, il mondo in cui alle donne dovrebbe essere dato modo di scegliere quando e come diventare mamme. Ecco perché: L’Endometriosi coinvolge l’intera società. Colpisce 1 donna su 10 e con lei le famiglie.

L’articolo Convivere con l’endometriosi. La testimonianza della tortoliese Sara Depau proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Maria Luisa Porcella Ciusa

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«Portare avanti l’azienda per me vuol dire tenere fede alle tradizioni, ricordare mia nonna che è diventata gobba a furia di portare le olive a piedi al frantoio e dire al mondo che le donne sono come gli uomini: stare a capo di un’azienda non mi spaventa.»

Si chiama Giulia Mura, ha quarant’anni e i premi che ha ricevuto per l’azienda familiare che conduce non si possono contare sulle dita di due mani, tra cui un Oscar Green come azienda innovativa.

Sì, perché la Mura ha negli anni condotto una rivoluzione: l’azienda Pelau – che produce olio, vino e prodotti per l’agricosmesi – è totalmente ecosostenibile, si sta convertendo in bio e i macchinari a basso impatto ambientale si sposano alla perfezione con la convinzione profonda che tutto debba essere fatto per il bene dell’ambiente e per la salute dei consumatori.

Cinquanta gli ettari di vigneti dove si coltiva perlopiù (90%) uva da Cannonau, ma anche da altri vini internazionali, e una trentina di ettari di ulivi secolari nel Pardu che danno vita a un olio sano, entrato per questo nel progetto Aristoil dell’Università di Atene. «Recuperiamo gli scarti e produciamo biomasse e biogas, in un’economia circolare)» racconta ancora Mura, molto sensibile al tema inquinamento e salvaguardia del territorio.

Insomma, un curriculum di tutto rispetto per la Mura che nei giorni scorsi era nelle Azzorre – insieme ad altre aziende – a portare l’Ogliastra lontano per il progetto di cooperazione transnazionale “Accorciamo le distanze: filiera corta tra terra e mare”. Tornata in terra ogliastrina nel 2007 dopo una laurea in Giurisprudenza, ha subito preso parte nell’azienda fondata dal padre e dalla madre, l’uno medico plurispecializzato, l’altra insegnante con la passione per la viticoltura. Da lì, un’ascesa: 15mila le bottiglie di vino prodotte con questa vendemmia e l’olio in giro per il mondo come garanzia di qualità. Ma Mura sogna vette ancor più alte.

«Punto molto sulla qualità,» continua la quarantenne «credo nell’unione tra territorio e prodotti e nella promozione di entrambi. Bisogna far sì che vigneti e uliveti diventino da semplice casa di produzione a luoghi d’interesse, esperienziali. Fare oleoturismo ed enoturismo è importante, noi lo facciamo.»

Una passione, per Mura, più che un impiego: «Ho creato il movimento “Turismo dell’olio – Sardegna”, perché penso che il futuro sia questo: unire la bellezza del terreno alla bontà dei suoi prodotti. Sono molto appassionata, credo nel mio lavoro e nell’agricoltura giovanile, che deve necessariamente legare innovazione e tradizione.»

Ma non solo: come abbiamo detto, il ruolo di donna al potere non la intimorisce. Anzi, la sua mission quotidiana è proprio riuscire ad affossare il maschilismo e l’idea, ahimè ancora radicata, che la donna debba essere relegata a ruoli di second’ordine e lo fa proprio a suon di determinazione.

«Sto organizzando un’associazione di donne isolane che si distinguono» conclude, con una luce negli occhi. Se è vero che servono tenacia, coraggio e una buona dose d’intraprendenza per brillare, Mura taglierà un traguardo dopo l’altro.

L’articolo Donne, futuro e agricoltura. Parla l’imprenditrice ogliastrina Giulia Mura: «Porto avanti la tradizione» proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

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Nel suo libro “Storia e storie di Tortolì”, Virgilio Nonnis nel 1988 descriveva la cittadina e i suoi abitanti con il suo inconfondibile acume.

Nonnis, lo ricordiamo, fu sindaco di Tortolì dal 1975 al 1979 e autore di numerosi saggi storici sulla cittadina. Senza dubbio è stato un personaggio di grande rilievo all’interno della comunità ogliastrina e profondo conoscitore del territorio.

Le sue parole, a distanza di più di trenta anni, hanno ancora un significativo fondo di verità. Leggiamo cosa scrisse nel suo libro pubblicato da Edizioni Della Torre, a proposito del “tortoliese tipo”:

«Rispettoso verso gli altri, fondamentalmente onesto, il tortoliese è l’esempio tipico dell’uomo che vuole vivere e lasciar vivere. Quasi sempre in buona fede, mai infastidito dalla fortuna degli altri, semmai indifferente. Non conosce la rissa e non ricorre mai a coltello. Rifugge da ogni forma di violenza, avendo connaturato il senso della legalità, che pone sempre al di sopra delle intemperanze proprie e altrui. Ha terrore di tutto di tutto ciò che significa restrizione della propria libertà, preferendo trovarsi nella veste di derubato piuttosto che in quella di ladro.

Facile alla battuta, non si lascia vincere facilmente dallo sconforto. Sensibile alle attestazioni di stima da parte degli altri, ricambia con pari e spesso maggiore attenzione e premura. Vive credendo nel presente. Poco frequentatore della chiesa, lascia alla donna il compito di pregare per sé e per gli altri. Partecipa però, con giovanile entusiasmo, alle feste tradizionali,nelle quali porta il segno della sua cordialità e sincerità.

Predilige l’iniziativa privata a quella associata, che considera non come somma di più volontà ma come espediente per rendere tutto più nebuloso. In politica si fa trascinare dalla passione del momento, disposto a valutare con maggiore simpatia più la forma della sostanza delle cose. Gli sfuggono, perciò, spesso, le prospettive dei grossi problemi perchè portato a farsi distrarre da quelli contingenti e minuti. Alla politica in un dibattito pubblico, preferisce il pettegolezzo.

Ha innato il dono della vena poetica, forse più pronunciato nella donna. In circostanze festose o di lutto, i versi gli sgorgano dalla bocca con spontaneità.

Se scoprisse che la forza di una comunità dipende dalla compattezza e dalla convergenza delle idee, intese come frutto di una partecipazione attiva e costruttiva, Tortolì con l’intera zona avrebbe una crescita più organica, meno disarticolata e più ricca di prospettive».

 

L’articolo “Il tortoliese onesto, pacifico ma incapace di fare squadra”. Le parole di Virgilio Nonnis nel 1988 sul “cittadino-tipo” proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi

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